Dalle cucine nazionali alla cucina mondiale. | eatparade
Nell’Ottocento, la nascita delle cosiddette “cucine nazionali”, si deve sostanzialmente all’affermazione della borghesia. La tradizione italiana, priva di un centro unitario analogo a quello che Parigi fu per la cucina francese, si sviluppa come recupero e valorizzazione di antichi usi locali, secondo un principio di spontaneità apparentemente “contadina”, anche se avviene in realtà attraverso una rilettura in chiave borghese, ricca delle usanze popolari. Il merito di questa rilettura e di questa unificazione è soprattutto di Pellegrino Artusi che la realizzò nella sua opera del 1891 “La scienza in cucina e l’arte di mangiar bene”.
Oggi, le cucine nazionali rappresentano l’elaborazione moderna è semplificata del tradizionale intreccio del “mangiar bene” è la volontà di esprimere uno stato sociale. Anche gli attuali tentativi di recuperare la cucina “popolare” e i cibi genuini sono essenzialmente un’affermazione di status e un’operazione commerciale, entrambe basate però su “scoperte” false dato che ormai la genuinità dei cibi è incerta, infatti, la maggior parte degli alimenti subisce le manipolazioni necessarie ad un servizio di massa.
Accanto ai tentativi di rafforzare le cucine nazionali si assiste in realtà a una fortissima tendenza a un’omologazione dei modi di cucinare e di alimentarsi su scala mondiale. Ciò dipende da vari fattori: oltre alle tecniche di conservazione, la diffusione attraverso i mezzi di comunicazione di massa, di modelli di comportamento simili in tutto il mondo (si pensi al fenomeno hamburger); la trasformazione delle funzioni e del ruolo della famiglia e l’affermarsi di nuove abitudini legate al lavoro e al tempo libero.
Naturalmente, nei vari paesi continuano a esistere abitudini diverse, ma all’interno di queste diversità l’alimentazione umana dipende, come molti altri aspetti della vita sociale moderna, dall’evoluzione della produzione, dalla distribuzione della ricchezza, dalle differenza sociali.